L’ultima volta abbiamo
menzionato l’effetto greenwashing che sta contraddistinguendo la realtà odierna
e l’incontro sempre più diffidente tra collettività ed impresa, tra consumatore
ed azienda.
Il fenomeno del greenwashing
nasce da un’esigenza avvertita dal mondo imprenditoriale, di “sfondare quel
muro di dififdenza del consumatore, dando un’immagine positiva della propria
iniziativa economica, appropriandosi di caratteristiche tipicamente
ambientaliste, volte alla creazione di un’immagine positiva nei confronti della
collettività.
In realtà tutto nasce da
un’esigenza avvertita dalla popolazione globale, quella di tornare a dare
valore alla qualità della vita, propendendo verso uno stile di vita più
consono, meno propenso al consumismo, allo sfruttamento delle risorse e
all’inquinamento.
Lo dimostra un recente
sondaggio commissionato dalla Commissione europea nei confronti dei suoi 28
Stati Membro, (dove ha coinvolto 25.568 cittadini di diverse fasce sociali e
demografiche), in base al quale il 77% degli intervistati sarebbe disposto “A
pagare di più per prodotti rispettosi dell’ambiente, se avessero la certezza
che lo sono davvero”.
Questo è soltanto uno degli
elementi che emerge dalla ricerca ma che pone in evidenza un atteggiamento
crescente da parte della collettività: la ricerca di garanzie e qualità nei
consumi quotidiani. Difatti solo il 55% ritiene di essere informato
sull’impatto ambientale dei prodotti che acquistano e usano.
Esiste pertanto,
un’enorme diffidenza generale. Le aziende alla perenne ricerca di strategie in
grado di consolidare il rapporto di fidelizzazione con l’utenza elabora di
conseguenza comunicazioni e promozioni in grado di rassicurare l’atteggiamento
diffidente della propria clientela, ma c’è da chiedersi quanto di quello che
vediamo corrisponda in realtà al vero e non sia soltanto una abilissima
messinscena.
La stragrande maggioranza
delle aziende, caratterizza la propria attività per obiettivi dove viene data
prioritaria importanza al raggiungimento di quote di mercato o se preferite di
profitto, lasciando a margine aspetti secondari quali talvolta la qualità e le
conseguenze dell’impatto produttivo.
Il termine è una sincrasi
delle parole green e washing e lasciamo a voi lettori ogni riflessione sulle
sensazioni prodotte dal termine. Il rischio è che in alcuni casi il fenomeno si
traduca in una ecosostenibilità soltanto di facciata.
Il rischio è che il
consumatore rimanga attratto dalla comunicazione di un’azienda che produce
cosmetici, attenta all’utilizzo di componenti naturali nei propri prodotti,
senza sapere che comunque continua a testarli sugli animali, oppure far pendere
la propria scelta su di un’impresa dedita all’erogazione di servizi energetici,
affascinati dalla campagna pubblicitaria che pone in evidenza l’utilizzo di innovative
tecnologie non inquinanti o di energia rinnovabile, quando queste costituiscono
solo una minima parte delle attività svolte dall'azienda, mentre le altre contribuiscono
in maniera significativa all'inquinamento e alla produzione di CO2.
Di esempi specifici se ne
potrebbero fare tanti, ma evitiamo per non citare apertamente le multinazionali
che contraddistinguono la nostra spesa quotidiana. Ci limitiamo a riflettere su
aspetti legati alla nocività dell’utilizzo di aspartame sulle bevande gassate
senza zucchero e sul fatto che oggi molte imprese ci fanno sapere che sono
tornate ad utilizzare zuccheri naturali, riportandolo sull’etichetta, sul fatto
che dedicano parte dei propri proventi a favore di zone depresse del terzo
mondo, o la realizzazione di condotti d’acqua in Nazioni dove la popolazione
muore di sete, e via dicendo.
A tal fine molti Paesi hanno
previsto l’emanazione di una serie di norme per contenere il fenomeno ed
evitare che esso rappresenti l’ennesima strategia per ingannare il consumatore
e mantenere saldo quel vincolo di fidelizzazione, lungamente cercato e finalmente
attivato con la collettività. In realtà è un compito che dovrebbe essere
assolto con maggiore propensione da parte di associazioni di categoria. In tal
senso l’Europa si sta muovendo, prevedendo una serie di norme che tutelino l’utenza.
Alcuni di queste Nazioni però stanno prevedendo norme specifiche di tutela,
come ad esempio in Francia, dove l'agenzia di protezione dei consumatori ha
stabilito che le automobili nelle pubblicità devono apparire in normali strade
aperte al traffico dove sono usate abitualmente e non in luoghi “green”. In
Norvegia il governo ha vietato all’industria automobilistica forme di
pubblicità comparativa sui temi ambientali. Il Regno Unito ha chiesto al
Consorzio dell'Olio di Palma Malese di ritirare l’annuncio apparso sulla BBC e
giudicato ingannevole che definiva il prodotto "un regalo dalla natura, un
regalo per la vita, che aiuta il pianeta a respirare e genera
sostenibilità".
In America, ad esempio, la
Commissione Federale del Commercio (FTC) ha fornito diverse linee guida contro
i posizionamenti ambientali falsi e ingannevoli nella pubblicità. L’Australia ha
varato una serie di norme che prevedono sanzioni fino a 1,1 milioni di dollari
per punire le aziende che comunicano comportamenti ambientali non
corrispondenti a verità.
Il nostro Paese, ancora
oggi, è meta di facile conquista e ancora non è stata varata alcuna norma specifica
che riesca a tutelare la popolazione, se non casi talmente evidenti di
pubblicità ingannevole dal rientrare nella comune definizione di “truffa”.
Attenzione però ad un
elemento di non poco conto. Utilizzare strategie green, per accattivarsi l’empatia
e la fiducia dei consumatori è un’arma a doppio taglio, o se si preferisce, un
boomerang dagli effetti devastanti. Oggi il consumatore è più esigente, pretenzioso,
scrupoloso e prima di fare un acquisto, di qualsiasi cosa si tratti, prima si
informa. Il mezzo più utilizzato è rappresentato da internet ed i numerosi siti
che contraddistinguono l’attendibilità di certe informazioni, come ad esempio
Greenpeace, il che significa che qualsiasi azienda può essere facilmente
smascherata e questo fattore può nuocere gravemente alla propria credibilità e a
quella dei suoi prodotti.
E’ vero che i consumatori sono sempre più sensibili
alle promesse che toccano l'ambiente, ma lo è anche il fatto che sono più
severi e questo può danneggiare irrimediabilmente la propria immagine e, di
conseguenza, gli obiettivi di profitto che gli sono molto a cuore.
A la prochaine